giovedì 28 agosto 2014

Specchio






“Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?”


Non c’è bisogno dei fratelli Grimm per possedere uno specchio magico e non c’è mai stato bisogno di una regina vanitosa alla continua ricerca della propria bellezza. Grimilde, Narciso, specchiarsi, guardarsi, tutti i riflessi sono magici, tutti gli specchi sono magici.

Chissà perché non ci accorgiamo più degli specchi.

Ci sono persone che amano gli specchi e persone che li odiano. In realtà, non so se odino lo specchio in sè o il riflesso della propria immagine. So che li evitano, sempre. Mai sentito parlare di spettrofobia? Il riflesso è sempre difficile da gestire. Gestire il riflesso della propria immagine può rasentare l’arte.

Anche i vampiri evitano gli specchi, dicono che non si vedano riflessi.. dicono sia una questione di anima.

Cammino con un amico lungo la riva di un fiume; osserviamo, sorridendo, entrambe le nostre immagini riflesse, torbide, sfuggenti. Anime. Cercando di non cadere in acqua – come insegna il buon Narciso – cominciamo a parlare di specchi. “Tu sei un artista, io un pensatore”… non so chi dei due finga di essere Boccadoro. Lui inizia a parlare in maniera frenetica; sembra stia parlando al proprio specchio.

Pensaci un attimo, rifletti, lo specchio.. per me lo specchio è come un testimone a cui affido le mie memorie.. noi due in fondo siamo sempre stati estremamente puntuali ad ogni nostro incontro, ad ogni appuntamento, dal primo, quello mattutino, ad altri durante la giornata, passando da quelli più intimi a quelli fugaci, per strada, per aggiustare qualche capello, dettagli insomma..

Memorie

Noi due in fondo ci somigliamo parecchio, è vero, anche se della tua vita non sono certo di sapere tutto come credo, e così forse è vero anche il contrario: è probabile si tratti solo di una lunga, intermittente ma allo stesso tempo continua illusione, come un’immagine che viene e va, che sa quando venire, che sa quando andare, senza dire mai una parola di troppo, forse, senza dire mai una parola…di là!

Quando venire, quando andare

Senti, ormai ti conosco da quanto? Non lo so più neanche io.. t’ho visto sotto molti aspetti, e conosciuto via via che gli anni passavano, sempre presente quando avevo bisogno di te, sempre in grado di porre di fronte a me un’immagine chiara, diretta, non sempre in linea col mio pensiero, a come la vedevo io, anzi sei praticamente un persistente punto di vista differente.

Bisogno di te

Conosco da anni una persona che ti piacerebbe, un vero amico; lui si comporta molto spesso come fai tu con me e pensa, avete la stessa lettera iniziale e la stessa lettera finale! Vi somigliate insomma o forse siete uno la copia dell’altro, solo visti da un’altra prospettiva, da una prospettiva centrale, uno in una realtà e uno in un’altra.. come fai tu con noi due ogni volta che mi osservo crescere, guardandomi fisso negli occhi e lasciando che le risposte alle domande in sospeso arrivino in qualche modo, da qualche parte.

“Tu sei un artista, io un pensatore.”

mercoledì 7 maggio 2014

Il ponte




All’inizio dell’anno c’è chi non vede l’ora di scorrere il calendario per segnare con un cerchio il giorno del compleanno di amici e parenti. Per molti si tratta di un rito. In realtà, la prima cosa che facciamo è cercare il giorno del nostro compleanno, è un classico. C’è chi invece all’inizio dell’anno il calendario lo scorre molto velocemente per capire la struttura dei ponti di primavera, per giocare d’anticipo su colleghi e caselle in excel da riempire (versione ufficiosa, quasi intimista) / per pianificare in tempo le tipiche gite fuori porta con amici e parenti (versione ufficiale). Polline permettendo.

Tempo fa, durante un ponte di primavera, mi trovavo in Bretagna, terra di avi e d’infanzia. Si parlava di coincidenze e di polline, seduti a tavola; in famiglia c’è chi è allergico al polline. Dopo pranzo, mio nonno andò a prendere un libricino dalle pagine ingiallite, custodito nella sua immensa biblioteca. Un volta aperto, si sentiva un odore acre di vissuto. Sprofondò nella poltrona e cominciò a leggere, con la pipa in mano.

Quelle che qualcuno chiama coincidenze fecero si che si incontrassero, accidentalmente, come sempre accade. Stavano camminando su un ponte, una mattina di fine aprile. Era un fine settimana, lungo. Era un ponte di primavera. Nevicava polline. Quella mattina raggiunsero a piccoli passi il centro di quel ponte, il suo punto più alto per via della curva, simultaneamente, provenienti entrambi da entrambe le sue estremità. Non c’era stato bisogno di alzarsi sulla punta dei piedi per riconoscersi. Si trovavano nel punto più alto dopo aver raggiunto entrambi il punto più basso, questo era stato il loro primo scambio.

Quelle che qualcuno chiama coincidenze fecero si che il ponte dovesse essere il simbolo della loro unione. Lo avevano deciso, insieme. Al primo incontro seguirono altri incontri, non più accidentali, come sempre accade. Decisero che avrebbero camminato sui ponti più belli delle città più belle del mondo, non solo di mattina, e che tutte le volte dovevano partire entrambi da entrambe le estremità, ogni volta per potersi incontrare e riconoscere nel punto più alto della curva. Camminare sui ponti era come fermare il tempo, a modo loro, era come fermare immagini non conosciute, mai viste. Era un rito.

Quelle che qualcuno chiama coincidenze fecero si che non si accorsero in tempo che il tempo passava, inesorabile. Il rito divenne abitudine, l’abitudine divenne noia. Continuarono ad incontrarsi sui ponti più belli delle città più belle del mondo promettendosi, vicendevolemente, amore incondizionato e rifiuto categorico di lucchetti intrecciati e parole mielose, indelebili, incollate sopra l’acqua dei fiumi. O dei mari. Poco importava. Loro erano diversi, come sempre accade.

Nevicava
Neve
Nessun polline
Nessuna impronta

Aspettavamo tutti un commento dal nonno
Una sua impronta
Parlò di coincidenze

mercoledì 5 giugno 2013

Roma antropofaga



La fortuna degli apolidi metropolitani senza radici avendone ovunque consiste nel fatto che riescono solitamente a saltare da una città all’altra senza troppe difficoltà. L’eventuale nuova lingua, i nuovi posti alti o bassi, grandi o piccoli non rappresentano quasi mai un problema. Il vero problema sono gli autoctoni. I mangiatori di uomini. A prescindere dalla latitudine e dalla longitudine. I mangiatori di uomini vivono ovunque, in qualsiasi metropoli. A volte vivono anche nei villaggi. Il cannibalismo – in questo caso – è a misura d’uomo.

“La bellezza del luogo in cui vivi è inversamente proporzionale alla velocità in cui ti ci imbruttisci. Vivendoci.” Non è un detto popolare. E’ il risultato di una constatazione. Non mia. Dopo aver visto un film. Al cinema. Poco tempo fa.

Passata la fase degli orsacchiotti, dei cd anti autovelox e degli arbre(s) magique(s) attaccati allo specchietto della macchina – e anni dopo aver imparato a guidare veramente una macchina – ti trovi davanti ad un un bivio: deve essere un mezzo, il mezzo che mi porta dal punto A al punto B nel minore tempo possibile e con tutte le comodità del caso? Decisamente si. Ma non è solo una questione di tempo. E neanche di comodità. E a dire il vero neanche di arbre(s) magique(s). Quelli li attacco ancora. L’altra via del bivio è una strada piena di curve, non una strada rettilinea. Non l’autostrada. Che monotonia. E’ più veloce si certo. Ma si va sempre dritto. E poi ti addormenti al volante se non bevi molti caffé. Non ci sono le curve.

Sono tante le metropoli del mondo e tanto è il mondo. Troppo. I nostri occhi sono piccoli. Troppo piccoli per vedere quanto tanto è il mondo. Non basta una vita. Troppo poca. Ma se vai in autostrada non vedi e non vivi mai le curve: i paesaggi nascosti che si aprono davanti a te – dopo ogni curva – rimangono persi. Nascosti. Non visti. Perdi guadagnando tempo.

“E’ anche un film sullo stridore totale che esiste tra la bellezza di Roma e la bruttezza delle persone che la abitano. Non perché sono brutte di natura. Ma perché Roma le ha inbruttite.”

Potrebbe forse essere un inno al romanzo sul niente! Il titolo del romanzo del protagonista – l’Apparato Umano – è come si suol dire la chiave e il riflesso del messaggio. E’ un film sul niente e sulla bellezza di Roma che vuole riempire quel vuoto. Ma solo in superficie. La sostanza dimostra invece che la bellezza è prima di tutto fatta di uomini e dagli uomini. E’ umana. Anche perché è l’uomo che decide ciò che è bello, dato che gli piace. Ma se la bellezza è umana allora è anche decadente. Prima o poi svanisce. Rimangono gli angoli nascosti dietro ogni curva di Roma. A piedi. Senza macchina. Pedalando in bicicletta o navigando sul Tevere..

Il corpo che si riempe e si vuota. L’Apparato Umano. Pennac ultimamente è in fissa con l’apparato, con il corpo umano inteso come contenitore di tutta la nostra storia. Hillman era in fissa con le emozioni che hanno una memoria nello stomaco. Ah lo stomaco, il secondo cervello.. Ho visto poche farfalle in quel film.

Saltare da una città all’altra per un apolide metropolitano senza radici avendone ovunque è come prendere la macchina e decidere di intraprendere una strada piena di curve. Ancora una volta. Altro bivio. Poca monotonia. Ma non è solo una questione di tempo.

Le curve saranno sempre di una certa.. grande bellezza!


patosoftineto

giovedì 30 maggio 2013

Il bicchiere di latte


Se scrivo “ceci n’est pas une pipe” scommetto che anche tu – in questo preciso momento – stai pensando alla pipa di Magritte. No? Si, dai.. Ah si.. Ricordo questa pipa in primo piano e la frase sotto, mi ricordo uno sfondo chiaro, forse giallo scuro, forse marrone chiaro. Che differenza c’è? Mmm.. Esiste il marrone sabbia, il marrone seppia, il marrone rame, il marrone beige. Il beige è una tonalità di marrone? Si, esiste persino il marrone daino e il marrone castoro. Apperò!
La pipa di sicuro è color pipa, marrone, come il legno. Di solito i fornelli delle pipe sono fatti con la radica. Di che colore è la radica? E’ un legno rossiccio. Lo sfondo comunque è chiaro, questo è poco ma sicuro. E comunque si, ho presente quel dipinto.

Bene, quel quadro si chiama “la Trahison des images”, il tradimento delle immagini. Questo magari non lo sapevi. Non ti preoccupare. Non lo sapevo neanche io. E sai che cos’è l’autoreferenzialità? Si, l’ho studiata all’università.. Don Chisciotte, Sei personaggi in cerca d’autore.. Calvino e i suoi dieci incipit.. Bene, quello di Magritte è un lavoro autoreferenziale, surrealista. Dicono sia riuscito ad andare oltre, oltre la quarta parete. La quarta parete?..

Non so se mio nonno si sia mai chiesto se una una pipa è davvero una pipa. Non so se mio nonno si è mai chiesto se una pipa fosse veramente una pipa. So solo che la consecutio è sbagliata. In entrambi i casi. Beh, forse la prima frase sta in piedi, no?.. Dici?..

In ogni caso – io e mio nonno – non abbiamo mai avuto modo di parlare di Magritte. Ma abbiamo fatto tanto altro. Sicuramente conosceva la pipa del quadro. Sicuramente conosceva Magritte. Non personalmente. Ovviamente. La pipa. Lui fumava la “sua” pipa al mattino, solo dopo aver bevuto il “suo” bicchiere di latte. Chi conosce la lingua francese conosce l’importanza dei pronomi possessivi.

Che figura importante il nonno. Che figura statuaria – saggia – il nonno. Molti nonni fumano la pipa. Il mio l’ha fumata per più di 50 anni. Vedo ancora il suo dente scavato dal bocchino tenuto perennemente in bocca. Solo qualche tempo fa, quando me ne ha regalata una, ho capito quanta fatica si fa nel mantenere il peso di una pipa tra le labbra. Il suo dente era molto scavato. Seduto, nella sua poltrona, manteneva la base della pipa con la mano destra, colonne di fumo, gambe accavallate, reggeva sempre un libro di fantascienza nella mano sinistra. Il pollice fungeva da leggio. Rimaneva così per ore.. Fantascienza! No, colonne di fumo. E la nonna che brontola.

La pipa. Un oggetto sacro, di antichissime origini. Mio nonno, Papy, era solito fumare la sua pipa solo dopo aver bevuto il suo bicchiere di latte. Al mattino. Papy la pipe. Dopo il latte, la pipa. Mai il contrario. E dopo la pipa il giardino. Non fumava mai durante la visita quotidiana alle sue piante di rabarbaro. Che buona le confettura di rabarbaro! Già.. Quella la faceva la nonna, Mamy. Mamy però fa anche le crêpes più buone del mondo. Che buone les crêpes! Et les gallettes?..

Magritte era belga, come mio nonno. Ah si! Ma dai.. I belgi sono un popolo strano. No, i belgi sono considerati forse un po’ strani, ma penso sia un luogo comune. E i fiamminghi? I fiamminghi.. Mmm.. Ma da dove nasce questo amore-odio tra belgi e francesi? E’ perché parlano la stessa lingua e sono confinanti. Sembra surreale, come la pipa di Magritte, ma è così. Beh, anche gli italiani e gli abitanti del Canton Ticino parlano la stessa lingua. Si, anche gli argentini e i boliviani. Mmm.. E quindi?..

Al mattino, tanti anni fa, bevevo il mio bicchiere di latte col nonno. In cucina con la radio che trasmetteva pezzi francesi degli anni 60 e 70. A volte passavano persino qualcosa degli anni 80. Ne riconoscevo qualcuna. Le ascoltava mio padre. Guai a non berlo il mio bicchiere. La nonna brontolava. Bois ton verre de lait, sinon cet après-midi on ne va pas au Verdelet. Da casa dei miei nonni si è sempre andati giù al mare, dove c’è il Verdelet. Il Verdelet era o è un luogo di culto dalle antichissime origini. Come la pipa. E’ un isolotto su cui camminare nelle giornate di bassa marea. E’ un isolotto inquietante, un po’ come la Bretagna. Ma ha un qualcosa di rassicurante, forse perché famigliare.. Ah, dai fammi vedere una foto! Eccola! Guarda in alto..

Da bambino ho sempre associato il bicchiere di latte all’isolotto del Verdelet. Lo faccio tutt’ora. In francese vogliono dire la stessa cosa. Bicchiere di latte. Ah, è una specie di omonimia? Mah, forse.. Sta di fatto che oggi il bicchiere di latte me lo bevo la sera. Non ci sono più le piante di rabarbaro..

Continua a bere il tuo bicchiere di latte e fuma la tua pipa.
Ceci n’est pas le Verdelet. Ceci n’est pas un verre de lait.
Magritte – per una volta – non tradirà questa immagine.

patosoftineto

martedì 14 maggio 2013

La lumaca



Steso sulla mia amaca dopo un pranzo copioso e innaffiato sento due bambini che giocano nel backyard adiacente al mio; fanno molto rumore nonostante sia domenica e nonostante le urla degli adulti provenienti da dentro casa. I bambini ce l’hanno con qualcuno o con qualcosa. Mi affaccio oltre i rami di bambù che delimitano il mio spazio e capisco che ce l’hanno con le lumache. Povere lumache.

Dalla prima alla quinta elementare sono andato a scuola in una via centrale del dodicesimo arrondissement. Rue Lamoricière. Paris. Abitavamo al sesto piano. Un boulevard. Papà ci faceva entrare nell’ascensore dopo aver mangiato i kellogg’s. C’erano già. Ci ritrovavamo al piano terra in pochissimi secondi. Giunti nel cortile io e mio fratello salutavamo la concièrge. Il digicode non era stato ancora inventato. Nell’ascensore, in quei pochissimi secondi, papà ci diceva sempre sorridete e non perderete mai. Il digicode arriverà anche a Roma, prima o poi.

Bonjour madame la concièrge! Bonjour les enfants! Con un sorriso bianco che illuminava l’inizio di giornata. Poi ci incamminavamo verso il cancello nero. All’altezza del calzolaio che faceva angolo si girava a destra e prima di arrivare davanti all’école ci si fermava da madame la boulangère. Bonjour madame la boulangère! Bonjour les enfants. Est-ce qu’on pourrait avoir des bonbons, s’il vous plait? On va faire moit-moit, Tino et moi! I fratelli minori sono solitamente più spavaldi. Si abituano a lottare ben prima. Non sempre. Ma quasi. Les enfants, un chausson aux pommes ou un croissant. Ou un flan, à la limite. Mais pas de bonbons. Faites moitié-moitié. Cela sera meilleur pour votre santé et surtout pour vos caries!

Non sapevo se papà si metteva d’accordo con madame la boulangère. L’unica certezza è che uscivamo dalla boulangerie con un pacco pieno di enormi bonbons solo il sabato mattina, quando a scuola ci accompagnava la mamma perché aveva sempre la mattinata libera e papà non solo faceva orario continuato ma doveva andare a lavorare prima degli altri giorni. Forse era tutto pianificato e i bonbons si potevano mangiare solo il sabato mattina. Ma mi piaceva sorridere alle persone. Tutte le mattine.

Mi stendo nuovamente sull’amaca e vedo lumache volare letteralmente sopra la mia testa. Sto sognando.

Le venti circoscrizioni in cui sono divisi i dipartimenti di Parigi formano – a ben vedere – il guscio di una lumaca. Perché proprio una lumaca? Da bambino me lo chiedevo sempre. Ma non osavo chiedere. Chiedevo tante cose, come tutti i bambini, ma non chiedevo nulla della lumaca. La domenica si andava a trovare amici alle porte della città, quando non erano loro e venire da noi: papà tirava fuori il suo stradario; la topografia. Gli piaceva quella parola. Su quel libricino tascabile vedevo sempre la solita lumaca. Un pò più piccola del solito. Ma sempre una lumaca. Chiedevo altro. La domenica mattina si prendeva la nostra Citroën due cavalli. Verde. Décapotable. Appena entrati sul périphérique chiedevo sempre – girando nervosamente la testa a destra e sinistra e reggendomi con le mani ai due poggiatesta: papà, maman, perché quelle macchine sono davanti a noi? Perché non possiamo sorpassarle? Perché non andiamo più forte? Loro se sono lì vuol dire che vanno più forte di noi. No, mi sentivo rispondere. Sono entrati prima di noi sul périph’ e quindi si trovano semplicemente davanti a noi. Semplicemente. Allora mi rimettevo seduto e giocavo a forza quattro – tascabile – col fratellino. Sembriamo una famiglia di lumache! Questo non riuscivo a dirlo. Lo pensavo.

Le domande dei bambini hanno sempre un che di innocente e misterioso. La non corruzione infantile rousseauniana. Prima di diventare pre-romantici, i bambini fanno sempre strane domande. Mai banali. Sono gli adulti ad essere banali. Noiosi. Gli adulti non trovano quasi mai le risposte alle domande dei bambini. Perché sono corrotti. E Sempre arrabbiati. Uffa. Credo si dimenticano di essere stati bambini. Fanciulli. No, non tutti se lo dimenticano.

“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi [...] ma lagrime ancora e tripudi suoi”.

Anamenesi. Risveglio della memoria. Fedro. Il ricordo delle idee. Platone. Ben prima di Marcel. La madeleine. Il tempo perduto non si ricerca. Sembra sempre definitivamente perso. Irreversibilmente trasformato. Lontano. Distante. E perso. Ma la madeleine inzuppata nel tè… La maman de Marcel. Anzi. La zia Léonie. Combray. Swann. Vedere una madeleine su un tavolo non ti ricorda nulla. Vero? Appoggiare però un pezzo di madeleine inzuppata di tè sul palato.. Beh, questo ti ricorda qualcosa!

Sensazione sensazionale.

Anche nel diciannovesimo secolo esistevano le lumache. Il Barone Haussmann, noto politico nonché prefetto del periodo antecendente alla Parigi godereccia e spensierata della Belle Époque, non solo mangiava gli escargots ma aveva pensato bene di ovviare al problema delle lumache parigine.

Le lumache continuavano ad essere lente perché prive di spazio. Erano buone però. Lo sono tutt’ora. Il Baron pensò bene che bisognava allargare le strade. Si faceva prima ad andare a mangiare le lumache. Creare enormi boulevards. Questo era stato il suo progetto. Parigi non sarà mai più la stessa. Farò prima ad andare a mangiare gli escargots.

A un certo punto capsico per davvero che le lumache volano sopra la mia testa. Scendo dalla mia amaca e vado a dare nuovamente un’occhiata a quello che succede nel backyard adiacente al mio. I bambini prendono le lumache – alcune ancora vive – da una bottiglia di plastica tagliata a metà e leggermente interrata, piena di birra. Il colore è più scuro rispetto alla birra che ho bevuto a pranzo.

Le lumache sono ghiotte di birra. Non solo di foglie in piena notte. Il Barone mangiava tante lumache e beveva tanta birra. Ma non penso vedesse volare le lumache sopra la sua testa. Neanche dopo tante birre.

I bambini si contendono le lumache col guscio più piccolo perché fanno una gara: vediamo chi riesce a tirarle fino al parco pieno di alberi. Dai guarda, quello là.. lo vedi? Di là, dove ci sono gli alberi. Il parco pieno di alberi è adiacente al mio backyard, dall’altra parte delle lumache. Ecco perché scelgono i gusci più piccoli. Per lanciarli più in là. In realtà se fossero più grossi forse andrebbero più in là. In ogni caso vedo volare le lumache sopra la mia testa. Non dico nulla, non oso. Ma avverto una strana sensazione.

Sensazionale.

Non è l’ora del tè e non c’è nessuna madeleine. Anamenesi.

Bonjour madame la boulangère! Est-ce qu’on pourrait avoir des bonbons, s’il vous plait?



patosoftineto

venerdì 10 maggio 2013

Una parola al secondo



…quando si lascia un luogo ove si è costruito qualcosa, in cui si è creduto poter investire sé stessi: allora, nel lasciarlo, si muore un po’. Si ha paura di quello che accadrà, si ripensa al vissuto.

Difficilmente ci si riesce ad abbandonare alla gioia dell’inatteso: solo fuggendo da qualcosa si ha una parvenza di libertà. Lui tuttavia non era solito fuggire: si era promesso di conoscere una vastità di luoghi, di incontrare differenti personaggi, diametrali mentalità. Abbandonava un luogo e subito si investiva nel porto di approdo, conscio che anche da lì sarebbe salpato ancora una volta, sempre alla continua scoperta della sua ricerca.

Quando si abbandona un luogo non perché lo si fugge, ma perché si vuole di più, allora la responsabilità di tale scelta traina voracemente il fardello dei dubbi, lascia alternativamente sbigottiti e allegri, terrorizzati ed entusiasti, malinconici ma euforici. Si è vulnerabili, probabilmente per dare modo a ciò che sta giungendo di colpirci con tanta violenza da dimenticare ciò che fu, da metterlo per un istante da parte, nel limbo dei ricordi che presto torneranno, ma la cui temporanea assenza lascia respirare a pieni polmoni, senza crampi.

Quando decidi di lasciare qualcuno, in particolare, quel senso di incompletezza assale e divora: non lasci al tempo la possibilità di accomodare, e spesso troppo viene demandato all’attesa. Rimane forse il gusto della mortalità, del non poter avere le risposte che vorresti, del frutto proibito che si continua ad attendere.

Rimane il dubbio che affiora tra gli alberi che scorrono lungo il finestrino, nell’affettuosa ed anziana coppia che si stringe forte qualche sedile avanti al tuo… diventi d’un tratto colpevole di non aver lasciato all’amata la possibilità di renderti felice, e con tale colpa non si convive superficialmente. È una colpa totalizzante, completa, esaustiva in sé stessa: è la ragione del suo discendere e la forma che assume è il magone e lo sconforto che capricciosamente arrivano per volare via, che ti lasciano in balia di una scelta ma che ti ricordano imprevedibili quanto ancora persistano nel sogno: il prezzo non è stato ancora del tutto saldato. Lo ricordano attraverso la silenziosa pazienza dell’autista, attraverso i sedili sformati da chi prima di te ha intrapreso il cammino, per mezzo degli alberi che scorrono lungo il finestrino e dell’affettuosa ed anziana coppia che si stringe forte qualche sedile avanti al tuo.

Lui non riusciva a colmare la voragine con l’entusiasmo del nuovo, con la protettiva proiezione dell’avvenire. Marciva nel senso di colpa, nell’immagine di lei che soffre e si dispera, che singhiozza raccontando tanta crudeltà al suo Amore; i suoi occhi gonfi e persi, insanguinati e sfregati; le guance solcate da lacrime che colano e che asciugandosi lasciano la crepa propria del sale; in particolare la sua voce, quella rara melodia che recitava oggi fievole sofferenza e dolore, l’incomprensione dell’abbandono; le sue mani che vedeva tremolanti, solcate da vene furiose e di nero striate.

Lei nella sua completezza, sprofondata nel divano rosso della loro casa dicendosi che sarebbe tornato; impotente e rabbioso la vedeva contorcersi e stringersi lo stomaco, chiedendosi perché debbano scorrere così tanti alberi lungo il finestrino del cammino…


reno

giovedì 9 maggio 2013

Centottanta gradi



Cammino per strada alla ricerca di angolazioni e triangolazioni. Angolazioni da fermare nel tempo con uno scatto, tese ad abbracciare le inquadrature desiderate; triangolazioni da trovare nello spazio per calcolare le distanze tra i punti cardinali di ieri e quelli di oggi. No, non ho paura di volare.


Ti raggiungerò.

La notte, quando stai per addormentarti, tutti gli episodi e le persone incontrate durante il giorno scorrono davanti ai tuoi occhi, come se ti trovassi davanti al finestrino di un treno, seduto in seconda classe. Le immagini scorrono, velocemente, non riesci a fermarle. Di prima mattina pensi invece di avere la testa abbastanza leggera e sgombra per immagazzinare tutto quello che succederà. Molti tendono a riposarsi dopo pranzo; la siesta, la sesta ora, la hora sexta, nasce probabilmente dalla necessità di memorizzare meglio quello che si vive al mattino. Spesso però, quando ti risvegli dal sonnellino, non sai più se è mattina o pomeriggio. Destabilizzante.

Cammino per strada in direzione del mio nine to five. Passo davanti al food market più in voga del momento, il posto dove ho conosciuto qualche tempo fa una persona venuta da lontano, una persona venuta dalla fine del mondo. Questo direbbe Papa Francesco.

La somma degli angoli di un triangolo, di un qualsiasi triangolo, è di centottanta gradi. Un goniometro. Tutti abbiamo avuto un goniometro nello zaino scolastico. Educazione tecnica. Un’arma bianca. Pensateci. Anche il flauto era un’arma bianca. Educazione musicale. Silenzio. Ora di italiano: scusi Prof, ma 180 in lettere si scrive centottanta o centoottanta? Il babbo ieri mi parlava di un qualcosa chiamato elisi.. Ma io conosco solo i Campi Elisi. Mi ci portava la mamma il sabato pomeriggio. Qualche tempo fa.

Centottanta gradi rappresentano l’esatta metà di un cerchio. Quello che non sono ancora riuscito a chiudere. Per farlo mi serve l’altra metà.

Ero uscito da casa di buon’ora. Il cielo era limpido e il sole cominciava a riscaldare la città e i suoi abitanti. Lei era atterrata il pomeriggio del giorno prima dopo aver attraversato l’oceano. In tempesta. Cosa vuoi che sia attraversare un oceano? Oggi prendere l’aereo è come prendere il treno. L’unica differenza è che si vola! Sì, è vero, ma l’oceano è grande.

Sì, l’oceano è immenso. Oceano mare: “…poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare ‘acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare’ – ed è un pensiero che dà i brividi.”

Chissà se anche io ero in grado di far scorrere il pennello sulle sue labbra. Anche io avevo i brividi ma non avevo paura di volare. Volevo solo trovare quell’altra metà del cerchio.

Lei aveva deciso di andare a trovarlo dopo un’infinità di ripensamenti. Sapeva benissimo cosa voleva dire entrare in quella casa, vivere i suoi ambienti e i suoi odori, dormire tutte quelle notti sotto quel tetto. Ma si era decisa; quel ragazzo conosciuto d’estate le aveva fatto provare sensazioni da tempo dimenticate. Dalle ultime ferite di amore erano passati anni. Forse lei aveva trovato l’altra metà del cerchio. Forse senza neppure cercarla.

Abito in pieno centro storico. No, non è colpa mia. La colpa è dei nonni che quarant’anni fa sono riusciti a comprare un appartamento molto grande. Soldi faticosamente accumulati sotto il materasso del letto matrimoniale. Un grande letto matrimoniale. Da grande ho capito che quell’appartamento non era così grande. Vivendoci, capisco perché gli occhi di un bambino sembrano sempre sproporzionati rispetto al resto del corpo. Quelli non crescono. Rimangono tali e quali. Come i metri quadrati condivisi con la donna venuta da lontano.

Uscito dall’ufficio quando la luce decide di abbandonare il giorno suono il campanello di casa; odio entrare in un luogo senza avvisare; anche se si tratta del mio luogo. Odio le persone che entrano nei miei luoghi senza essere avvisato. Apre e mi salta al collo. Come se ci conoscessimo da una vita e come se quello stesso istante dovesse durare per sempre.

“…venivano dai più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece neanche si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è meraviglioso.”

Sì, ci siamo riconosciuti. In realtà ci conoscevamo già. Senza che ce ne fossimo accorti, senza che ci fossimo cercati. No, non ho paura di volare. Ho solo bisogno di trovare l’altra metà del cerchio. Per chiuderlo.

A centottanta gradi l’acqua dell’Oceano può essere sia liquida che eariforme. Questo in teoria, dipende dalla pressione. In realtà a centottanta gradi l’acqua non esiste più.

No, non ho paura di volare. Ho solo bisogno di trovare la parte rovesciata del goniometro.

Basta girarlo.. Mantenendo ferma la base.

patosoftineto