giovedì 30 maggio 2013

Il bicchiere di latte


Se scrivo “ceci n’est pas une pipe” scommetto che anche tu – in questo preciso momento – stai pensando alla pipa di Magritte. No? Si, dai.. Ah si.. Ricordo questa pipa in primo piano e la frase sotto, mi ricordo uno sfondo chiaro, forse giallo scuro, forse marrone chiaro. Che differenza c’è? Mmm.. Esiste il marrone sabbia, il marrone seppia, il marrone rame, il marrone beige. Il beige è una tonalità di marrone? Si, esiste persino il marrone daino e il marrone castoro. Apperò!
La pipa di sicuro è color pipa, marrone, come il legno. Di solito i fornelli delle pipe sono fatti con la radica. Di che colore è la radica? E’ un legno rossiccio. Lo sfondo comunque è chiaro, questo è poco ma sicuro. E comunque si, ho presente quel dipinto.

Bene, quel quadro si chiama “la Trahison des images”, il tradimento delle immagini. Questo magari non lo sapevi. Non ti preoccupare. Non lo sapevo neanche io. E sai che cos’è l’autoreferenzialità? Si, l’ho studiata all’università.. Don Chisciotte, Sei personaggi in cerca d’autore.. Calvino e i suoi dieci incipit.. Bene, quello di Magritte è un lavoro autoreferenziale, surrealista. Dicono sia riuscito ad andare oltre, oltre la quarta parete. La quarta parete?..

Non so se mio nonno si sia mai chiesto se una una pipa è davvero una pipa. Non so se mio nonno si è mai chiesto se una pipa fosse veramente una pipa. So solo che la consecutio è sbagliata. In entrambi i casi. Beh, forse la prima frase sta in piedi, no?.. Dici?..

In ogni caso – io e mio nonno – non abbiamo mai avuto modo di parlare di Magritte. Ma abbiamo fatto tanto altro. Sicuramente conosceva la pipa del quadro. Sicuramente conosceva Magritte. Non personalmente. Ovviamente. La pipa. Lui fumava la “sua” pipa al mattino, solo dopo aver bevuto il “suo” bicchiere di latte. Chi conosce la lingua francese conosce l’importanza dei pronomi possessivi.

Che figura importante il nonno. Che figura statuaria – saggia – il nonno. Molti nonni fumano la pipa. Il mio l’ha fumata per più di 50 anni. Vedo ancora il suo dente scavato dal bocchino tenuto perennemente in bocca. Solo qualche tempo fa, quando me ne ha regalata una, ho capito quanta fatica si fa nel mantenere il peso di una pipa tra le labbra. Il suo dente era molto scavato. Seduto, nella sua poltrona, manteneva la base della pipa con la mano destra, colonne di fumo, gambe accavallate, reggeva sempre un libro di fantascienza nella mano sinistra. Il pollice fungeva da leggio. Rimaneva così per ore.. Fantascienza! No, colonne di fumo. E la nonna che brontola.

La pipa. Un oggetto sacro, di antichissime origini. Mio nonno, Papy, era solito fumare la sua pipa solo dopo aver bevuto il suo bicchiere di latte. Al mattino. Papy la pipe. Dopo il latte, la pipa. Mai il contrario. E dopo la pipa il giardino. Non fumava mai durante la visita quotidiana alle sue piante di rabarbaro. Che buona le confettura di rabarbaro! Già.. Quella la faceva la nonna, Mamy. Mamy però fa anche le crêpes più buone del mondo. Che buone les crêpes! Et les gallettes?..

Magritte era belga, come mio nonno. Ah si! Ma dai.. I belgi sono un popolo strano. No, i belgi sono considerati forse un po’ strani, ma penso sia un luogo comune. E i fiamminghi? I fiamminghi.. Mmm.. Ma da dove nasce questo amore-odio tra belgi e francesi? E’ perché parlano la stessa lingua e sono confinanti. Sembra surreale, come la pipa di Magritte, ma è così. Beh, anche gli italiani e gli abitanti del Canton Ticino parlano la stessa lingua. Si, anche gli argentini e i boliviani. Mmm.. E quindi?..

Al mattino, tanti anni fa, bevevo il mio bicchiere di latte col nonno. In cucina con la radio che trasmetteva pezzi francesi degli anni 60 e 70. A volte passavano persino qualcosa degli anni 80. Ne riconoscevo qualcuna. Le ascoltava mio padre. Guai a non berlo il mio bicchiere. La nonna brontolava. Bois ton verre de lait, sinon cet après-midi on ne va pas au Verdelet. Da casa dei miei nonni si è sempre andati giù al mare, dove c’è il Verdelet. Il Verdelet era o è un luogo di culto dalle antichissime origini. Come la pipa. E’ un isolotto su cui camminare nelle giornate di bassa marea. E’ un isolotto inquietante, un po’ come la Bretagna. Ma ha un qualcosa di rassicurante, forse perché famigliare.. Ah, dai fammi vedere una foto! Eccola! Guarda in alto..

Da bambino ho sempre associato il bicchiere di latte all’isolotto del Verdelet. Lo faccio tutt’ora. In francese vogliono dire la stessa cosa. Bicchiere di latte. Ah, è una specie di omonimia? Mah, forse.. Sta di fatto che oggi il bicchiere di latte me lo bevo la sera. Non ci sono più le piante di rabarbaro..

Continua a bere il tuo bicchiere di latte e fuma la tua pipa.
Ceci n’est pas le Verdelet. Ceci n’est pas un verre de lait.
Magritte – per una volta – non tradirà questa immagine.

patosoftineto

martedì 14 maggio 2013

La lumaca



Steso sulla mia amaca dopo un pranzo copioso e innaffiato sento due bambini che giocano nel backyard adiacente al mio; fanno molto rumore nonostante sia domenica e nonostante le urla degli adulti provenienti da dentro casa. I bambini ce l’hanno con qualcuno o con qualcosa. Mi affaccio oltre i rami di bambù che delimitano il mio spazio e capisco che ce l’hanno con le lumache. Povere lumache.

Dalla prima alla quinta elementare sono andato a scuola in una via centrale del dodicesimo arrondissement. Rue Lamoricière. Paris. Abitavamo al sesto piano. Un boulevard. Papà ci faceva entrare nell’ascensore dopo aver mangiato i kellogg’s. C’erano già. Ci ritrovavamo al piano terra in pochissimi secondi. Giunti nel cortile io e mio fratello salutavamo la concièrge. Il digicode non era stato ancora inventato. Nell’ascensore, in quei pochissimi secondi, papà ci diceva sempre sorridete e non perderete mai. Il digicode arriverà anche a Roma, prima o poi.

Bonjour madame la concièrge! Bonjour les enfants! Con un sorriso bianco che illuminava l’inizio di giornata. Poi ci incamminavamo verso il cancello nero. All’altezza del calzolaio che faceva angolo si girava a destra e prima di arrivare davanti all’école ci si fermava da madame la boulangère. Bonjour madame la boulangère! Bonjour les enfants. Est-ce qu’on pourrait avoir des bonbons, s’il vous plait? On va faire moit-moit, Tino et moi! I fratelli minori sono solitamente più spavaldi. Si abituano a lottare ben prima. Non sempre. Ma quasi. Les enfants, un chausson aux pommes ou un croissant. Ou un flan, à la limite. Mais pas de bonbons. Faites moitié-moitié. Cela sera meilleur pour votre santé et surtout pour vos caries!

Non sapevo se papà si metteva d’accordo con madame la boulangère. L’unica certezza è che uscivamo dalla boulangerie con un pacco pieno di enormi bonbons solo il sabato mattina, quando a scuola ci accompagnava la mamma perché aveva sempre la mattinata libera e papà non solo faceva orario continuato ma doveva andare a lavorare prima degli altri giorni. Forse era tutto pianificato e i bonbons si potevano mangiare solo il sabato mattina. Ma mi piaceva sorridere alle persone. Tutte le mattine.

Mi stendo nuovamente sull’amaca e vedo lumache volare letteralmente sopra la mia testa. Sto sognando.

Le venti circoscrizioni in cui sono divisi i dipartimenti di Parigi formano – a ben vedere – il guscio di una lumaca. Perché proprio una lumaca? Da bambino me lo chiedevo sempre. Ma non osavo chiedere. Chiedevo tante cose, come tutti i bambini, ma non chiedevo nulla della lumaca. La domenica si andava a trovare amici alle porte della città, quando non erano loro e venire da noi: papà tirava fuori il suo stradario; la topografia. Gli piaceva quella parola. Su quel libricino tascabile vedevo sempre la solita lumaca. Un pò più piccola del solito. Ma sempre una lumaca. Chiedevo altro. La domenica mattina si prendeva la nostra Citroën due cavalli. Verde. Décapotable. Appena entrati sul périphérique chiedevo sempre – girando nervosamente la testa a destra e sinistra e reggendomi con le mani ai due poggiatesta: papà, maman, perché quelle macchine sono davanti a noi? Perché non possiamo sorpassarle? Perché non andiamo più forte? Loro se sono lì vuol dire che vanno più forte di noi. No, mi sentivo rispondere. Sono entrati prima di noi sul périph’ e quindi si trovano semplicemente davanti a noi. Semplicemente. Allora mi rimettevo seduto e giocavo a forza quattro – tascabile – col fratellino. Sembriamo una famiglia di lumache! Questo non riuscivo a dirlo. Lo pensavo.

Le domande dei bambini hanno sempre un che di innocente e misterioso. La non corruzione infantile rousseauniana. Prima di diventare pre-romantici, i bambini fanno sempre strane domande. Mai banali. Sono gli adulti ad essere banali. Noiosi. Gli adulti non trovano quasi mai le risposte alle domande dei bambini. Perché sono corrotti. E Sempre arrabbiati. Uffa. Credo si dimenticano di essere stati bambini. Fanciulli. No, non tutti se lo dimenticano.

“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi [...] ma lagrime ancora e tripudi suoi”.

Anamenesi. Risveglio della memoria. Fedro. Il ricordo delle idee. Platone. Ben prima di Marcel. La madeleine. Il tempo perduto non si ricerca. Sembra sempre definitivamente perso. Irreversibilmente trasformato. Lontano. Distante. E perso. Ma la madeleine inzuppata nel tè… La maman de Marcel. Anzi. La zia Léonie. Combray. Swann. Vedere una madeleine su un tavolo non ti ricorda nulla. Vero? Appoggiare però un pezzo di madeleine inzuppata di tè sul palato.. Beh, questo ti ricorda qualcosa!

Sensazione sensazionale.

Anche nel diciannovesimo secolo esistevano le lumache. Il Barone Haussmann, noto politico nonché prefetto del periodo antecendente alla Parigi godereccia e spensierata della Belle Époque, non solo mangiava gli escargots ma aveva pensato bene di ovviare al problema delle lumache parigine.

Le lumache continuavano ad essere lente perché prive di spazio. Erano buone però. Lo sono tutt’ora. Il Baron pensò bene che bisognava allargare le strade. Si faceva prima ad andare a mangiare le lumache. Creare enormi boulevards. Questo era stato il suo progetto. Parigi non sarà mai più la stessa. Farò prima ad andare a mangiare gli escargots.

A un certo punto capsico per davvero che le lumache volano sopra la mia testa. Scendo dalla mia amaca e vado a dare nuovamente un’occhiata a quello che succede nel backyard adiacente al mio. I bambini prendono le lumache – alcune ancora vive – da una bottiglia di plastica tagliata a metà e leggermente interrata, piena di birra. Il colore è più scuro rispetto alla birra che ho bevuto a pranzo.

Le lumache sono ghiotte di birra. Non solo di foglie in piena notte. Il Barone mangiava tante lumache e beveva tanta birra. Ma non penso vedesse volare le lumache sopra la sua testa. Neanche dopo tante birre.

I bambini si contendono le lumache col guscio più piccolo perché fanno una gara: vediamo chi riesce a tirarle fino al parco pieno di alberi. Dai guarda, quello là.. lo vedi? Di là, dove ci sono gli alberi. Il parco pieno di alberi è adiacente al mio backyard, dall’altra parte delle lumache. Ecco perché scelgono i gusci più piccoli. Per lanciarli più in là. In realtà se fossero più grossi forse andrebbero più in là. In ogni caso vedo volare le lumache sopra la mia testa. Non dico nulla, non oso. Ma avverto una strana sensazione.

Sensazionale.

Non è l’ora del tè e non c’è nessuna madeleine. Anamenesi.

Bonjour madame la boulangère! Est-ce qu’on pourrait avoir des bonbons, s’il vous plait?



patosoftineto

venerdì 10 maggio 2013

Una parola al secondo



…quando si lascia un luogo ove si è costruito qualcosa, in cui si è creduto poter investire sé stessi: allora, nel lasciarlo, si muore un po’. Si ha paura di quello che accadrà, si ripensa al vissuto.

Difficilmente ci si riesce ad abbandonare alla gioia dell’inatteso: solo fuggendo da qualcosa si ha una parvenza di libertà. Lui tuttavia non era solito fuggire: si era promesso di conoscere una vastità di luoghi, di incontrare differenti personaggi, diametrali mentalità. Abbandonava un luogo e subito si investiva nel porto di approdo, conscio che anche da lì sarebbe salpato ancora una volta, sempre alla continua scoperta della sua ricerca.

Quando si abbandona un luogo non perché lo si fugge, ma perché si vuole di più, allora la responsabilità di tale scelta traina voracemente il fardello dei dubbi, lascia alternativamente sbigottiti e allegri, terrorizzati ed entusiasti, malinconici ma euforici. Si è vulnerabili, probabilmente per dare modo a ciò che sta giungendo di colpirci con tanta violenza da dimenticare ciò che fu, da metterlo per un istante da parte, nel limbo dei ricordi che presto torneranno, ma la cui temporanea assenza lascia respirare a pieni polmoni, senza crampi.

Quando decidi di lasciare qualcuno, in particolare, quel senso di incompletezza assale e divora: non lasci al tempo la possibilità di accomodare, e spesso troppo viene demandato all’attesa. Rimane forse il gusto della mortalità, del non poter avere le risposte che vorresti, del frutto proibito che si continua ad attendere.

Rimane il dubbio che affiora tra gli alberi che scorrono lungo il finestrino, nell’affettuosa ed anziana coppia che si stringe forte qualche sedile avanti al tuo… diventi d’un tratto colpevole di non aver lasciato all’amata la possibilità di renderti felice, e con tale colpa non si convive superficialmente. È una colpa totalizzante, completa, esaustiva in sé stessa: è la ragione del suo discendere e la forma che assume è il magone e lo sconforto che capricciosamente arrivano per volare via, che ti lasciano in balia di una scelta ma che ti ricordano imprevedibili quanto ancora persistano nel sogno: il prezzo non è stato ancora del tutto saldato. Lo ricordano attraverso la silenziosa pazienza dell’autista, attraverso i sedili sformati da chi prima di te ha intrapreso il cammino, per mezzo degli alberi che scorrono lungo il finestrino e dell’affettuosa ed anziana coppia che si stringe forte qualche sedile avanti al tuo.

Lui non riusciva a colmare la voragine con l’entusiasmo del nuovo, con la protettiva proiezione dell’avvenire. Marciva nel senso di colpa, nell’immagine di lei che soffre e si dispera, che singhiozza raccontando tanta crudeltà al suo Amore; i suoi occhi gonfi e persi, insanguinati e sfregati; le guance solcate da lacrime che colano e che asciugandosi lasciano la crepa propria del sale; in particolare la sua voce, quella rara melodia che recitava oggi fievole sofferenza e dolore, l’incomprensione dell’abbandono; le sue mani che vedeva tremolanti, solcate da vene furiose e di nero striate.

Lei nella sua completezza, sprofondata nel divano rosso della loro casa dicendosi che sarebbe tornato; impotente e rabbioso la vedeva contorcersi e stringersi lo stomaco, chiedendosi perché debbano scorrere così tanti alberi lungo il finestrino del cammino…


reno

giovedì 9 maggio 2013

Centottanta gradi



Cammino per strada alla ricerca di angolazioni e triangolazioni. Angolazioni da fermare nel tempo con uno scatto, tese ad abbracciare le inquadrature desiderate; triangolazioni da trovare nello spazio per calcolare le distanze tra i punti cardinali di ieri e quelli di oggi. No, non ho paura di volare.


Ti raggiungerò.

La notte, quando stai per addormentarti, tutti gli episodi e le persone incontrate durante il giorno scorrono davanti ai tuoi occhi, come se ti trovassi davanti al finestrino di un treno, seduto in seconda classe. Le immagini scorrono, velocemente, non riesci a fermarle. Di prima mattina pensi invece di avere la testa abbastanza leggera e sgombra per immagazzinare tutto quello che succederà. Molti tendono a riposarsi dopo pranzo; la siesta, la sesta ora, la hora sexta, nasce probabilmente dalla necessità di memorizzare meglio quello che si vive al mattino. Spesso però, quando ti risvegli dal sonnellino, non sai più se è mattina o pomeriggio. Destabilizzante.

Cammino per strada in direzione del mio nine to five. Passo davanti al food market più in voga del momento, il posto dove ho conosciuto qualche tempo fa una persona venuta da lontano, una persona venuta dalla fine del mondo. Questo direbbe Papa Francesco.

La somma degli angoli di un triangolo, di un qualsiasi triangolo, è di centottanta gradi. Un goniometro. Tutti abbiamo avuto un goniometro nello zaino scolastico. Educazione tecnica. Un’arma bianca. Pensateci. Anche il flauto era un’arma bianca. Educazione musicale. Silenzio. Ora di italiano: scusi Prof, ma 180 in lettere si scrive centottanta o centoottanta? Il babbo ieri mi parlava di un qualcosa chiamato elisi.. Ma io conosco solo i Campi Elisi. Mi ci portava la mamma il sabato pomeriggio. Qualche tempo fa.

Centottanta gradi rappresentano l’esatta metà di un cerchio. Quello che non sono ancora riuscito a chiudere. Per farlo mi serve l’altra metà.

Ero uscito da casa di buon’ora. Il cielo era limpido e il sole cominciava a riscaldare la città e i suoi abitanti. Lei era atterrata il pomeriggio del giorno prima dopo aver attraversato l’oceano. In tempesta. Cosa vuoi che sia attraversare un oceano? Oggi prendere l’aereo è come prendere il treno. L’unica differenza è che si vola! Sì, è vero, ma l’oceano è grande.

Sì, l’oceano è immenso. Oceano mare: “…poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare ‘acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare’ – ed è un pensiero che dà i brividi.”

Chissà se anche io ero in grado di far scorrere il pennello sulle sue labbra. Anche io avevo i brividi ma non avevo paura di volare. Volevo solo trovare quell’altra metà del cerchio.

Lei aveva deciso di andare a trovarlo dopo un’infinità di ripensamenti. Sapeva benissimo cosa voleva dire entrare in quella casa, vivere i suoi ambienti e i suoi odori, dormire tutte quelle notti sotto quel tetto. Ma si era decisa; quel ragazzo conosciuto d’estate le aveva fatto provare sensazioni da tempo dimenticate. Dalle ultime ferite di amore erano passati anni. Forse lei aveva trovato l’altra metà del cerchio. Forse senza neppure cercarla.

Abito in pieno centro storico. No, non è colpa mia. La colpa è dei nonni che quarant’anni fa sono riusciti a comprare un appartamento molto grande. Soldi faticosamente accumulati sotto il materasso del letto matrimoniale. Un grande letto matrimoniale. Da grande ho capito che quell’appartamento non era così grande. Vivendoci, capisco perché gli occhi di un bambino sembrano sempre sproporzionati rispetto al resto del corpo. Quelli non crescono. Rimangono tali e quali. Come i metri quadrati condivisi con la donna venuta da lontano.

Uscito dall’ufficio quando la luce decide di abbandonare il giorno suono il campanello di casa; odio entrare in un luogo senza avvisare; anche se si tratta del mio luogo. Odio le persone che entrano nei miei luoghi senza essere avvisato. Apre e mi salta al collo. Come se ci conoscessimo da una vita e come se quello stesso istante dovesse durare per sempre.

“…venivano dai più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece neanche si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è meraviglioso.”

Sì, ci siamo riconosciuti. In realtà ci conoscevamo già. Senza che ce ne fossimo accorti, senza che ci fossimo cercati. No, non ho paura di volare. Ho solo bisogno di trovare l’altra metà del cerchio. Per chiuderlo.

A centottanta gradi l’acqua dell’Oceano può essere sia liquida che eariforme. Questo in teoria, dipende dalla pressione. In realtà a centottanta gradi l’acqua non esiste più.

No, non ho paura di volare. Ho solo bisogno di trovare la parte rovesciata del goniometro.

Basta girarlo.. Mantenendo ferma la base.

patosoftineto

martedì 7 maggio 2013

Unbirthday


C’è una ricorrenza che cade ogni giorno dell’anno, il non compleanno. Durante i trecentosessantaquattro giorni di non compleanno si ricevono doni ingenetliaci. Più interessanti e graditi rispetto ad un unico dono genetliaco. No doubt. Grazie Lewis. Lapalissiano.
Che cosa hanno in comune un corvo ed uno scrittoio?
Nulla. Questo pensavo mentre contemplavo – indifferente - una coppia non più giovane che si scambiava effusioni in un ristorante. Seduti davanti ad una candela ed un paio di bicchieri di vino bianco, rigorosamente fermo. Come il Tempo. No, non era la perenne ora del tè e il Capellaio Matto, accusato giustamente di ammazzare il Tempo e non solo quello, continuava a guardare il suo orologio che segnava il giorno ed il mese. Non le ore.
Meglio così, almeno non le vedi passare.
Col pensiero li ho accompagnati fino alla macchina e mi sembrava di vederli camminare, fuori dal ristorante. Lui che giocava col mazzo di chiavi, fischettando; lei che arrancava su quei trampoli di diciotto centimetri cercando di rincorrerlo a passi piccoli, impercettibili.
La loro velocità era diversa.
Strana era la maniera in cui lei fissava le altre donne del locale. Criticava la loro pettinatura, imprecava contro gli stivaloni troppo alti e pacchiani, sprezzava il loro trucco troppo pesante, cosciente della propria superiorità. Aspettava la sua insalata mista ammirando l’anello che le aveva appena regalato l’uomo della sua vita. Oggi era il suo compleanno - non c’era nessun non compleanno da festeggiare - e lui le aveva fatto il regalo genetliaco più bello del mondo. Le aveva chiesto di sposarlo. Ancora turbata si sistemava la spallina del nuovo abito costato un quarto di stipendio e sfiorava i lunghi riccioli biondi che le cadevano sulle spalle. Si sentiva bella, affascinante, attraente. Avvenente. Aveva una strana maniera di guardare le persone: inclinava leggermente la testa verso destra muovendo la bocca, sempre verso destra. Seduta, socchiudeva gli occhi e si toccava il labbro superiore con il pollice della mano destra reggendo una marlboro light tra l’indice e il medio. Dita raffinatissime sulle quali risaltava uno strano smalto nero.
Col pensiero li ho visti entrare in macchina. Abbracciati. Stereo altissimo.
Lui degustava lentamente il suo bicchiere e le parlava a voce bassa. Aveva prenotato la cena una settimana prima e si era fatto fare l’anello da un suo amico orafo; lo aveva pagato un terzo del suo prezzo. Anche lui guardava le donne che erano sedute agli altri tavoli ma con fare spontaneo, privo di sguardi diffidenti. Amava osservare qualsiasi donna. Amava le donne, in generale. Non rideva quasi mai e si limitava a sorridere. Ogni tanto prendeva la mano della donna bionda e le sussurrava qualche cosa all’orecchio inclinando il corpo in avanti, ben attento a non sporcarsi la camicia bianca. Lei si riversava improvvisamente all’indietro, sullo schienale della sedia, soffocando risate troppo acute.
Col pensiero li ho visti entrare nel monolocale della ragazza.
Si sdraiarono sul letto a due piazze e cominciarono a baciarsi mordicchiandosi le labbra. Lei si alzò, andò verso il mini bar e riempì due bicchieri ghiacciati con dell’ottima vodka polacca; lui si girò e infilò nello stereo un cd di musica classica tra i tanti che erano sparpagliati - senza custodia - sul tavolino.
Cosa hanno in comune un corvo ed uno scrittoio?
Nulla. Questo pensavo mentre chiedevo il conto al cameriere.
Sdraiati e sudati ascoltavano le ultime note del disco. Lui si accese una sigaretta stringendo la testa della ragazza bionda sul proprio petto. Pensava al ristorante, alla cena, al monolocale. Pensava all’anello. Pensava al dono genetliaco. Spense la sigaretta a metà e si rivestì scrutando con la coda dell’occhio la donna che piangeva. Non disse nulla ma allacciandosi gli ultimi bottoni della camicia cominciò a sorridere. Un sorriso a labbra strette. Un sorriso che fece muovere la sua bocca. Verso destra.
Quando lui accese il motore della macchina guardò l’orologio. Il giorno ed il mese non erano indicati. Era solo tardi. Troppo tardi.
Quando lei smise di piangere andò dal Cappellaio Matto. Non riuscì a portare a termine un discorso sensato. Ma trovò la differenza tra un corvo ed uno scrittoio.
 
 
 
patosoftineto

venerdì 3 maggio 2013

Primo Maggio - Il muro bianco in prima persona



Primo Maggio 2013


Oggi è un giorno di festa e non si lavora. Oggi è il giorno dei lavoratori. Forse farà festa anche chi non lavora. Ma solo per solidarietà.

Alle 6 in punto un filo di luce comincia a dar forma a tutto quello che mi circonda. Intravedo, a fatica, le fessure degli scuri e la luce che penetra attraverso la tenda rossa crea una strana alchimia cromatica. Chissà perché gli occhi - appena aperti - cercano sempre una finestra. Perché si avverte all’improvviso la necessità di una via di uscita, nel letto, appena ci si sveglia? Si vuole forse prendere la giusta distanza dal luogo in cui si ri-prende coscienza del proprio io? O forse si cerca la provenienza della luce per riparare gli occhi ancora gonfi e stropicciati? C’è il sole o ci sono le nuvole? Forse pioverà. Forse gli occhi si diriggono inconsapevolmente verso la finestra per un semplice bisogno di libertà. Anche e solo mentale. Tant’è che spesso, e neanche troppo paradossalmente, una volta svegli e una volta scrutata la finestra, ci si gira verso la persona che si ha al proprio fianco, nel letto, la persona che di solito si ama; è come se si volesse abbracciare la sicurezza che spiega perché non si apre subito quella finestra, perché non si vuole rompere l’equilibrio di un momento. Corto o lungo. Effimero o duraturo. Non ha importanza.

Prime luci del mattino. La memoria a breve termine ha immagazzinato le ultime fasi del sogno; sono state immediatamente trascritte sul quaderno nero moleskine, oggetto di indiscusso valore teso all’interpretazione dell’inconscio.

Un dedalo come tanti altri.

Mi sono girato e rigirato, ho anche provato a mettere la testa sotto il cuscino. Le prime ore del mattino sono sempre silenziose e soavi ma possono essere anche molto rumorose e caotiche. Mi sono alzato e ho spostato leggermente la tenda rossa, ho aperto la finestra che dà sul terrazzo e ho spalancato gli scuri. Al mattino si tende sempre ad aprire gli scuri della propria camera con una certa brutalità: troppo forte è la voglia di scappare dalle antropotossine appesantite dalla notte. Di sera, invece, si chiudono gli scuri in maniera vellutata, sulla punta dei piedi e senza far rumore, per non svegliare i demoni. Loro dormono già.

Una volta aperta la finestra non ho sentito nessun rumore di motore acceso vicino al bar. D’altra parte oggi è il giorno dei lavoratori e al lavoro - di solito - ci si va in macchina. Ma prima si deve bere il caffè a casa... e al bar. Altrimenti che inizio di giornata è?

Tutte le mattine dovrebbero essere così. Sì, ma la festa dei lavoratori c’è solo una volta all’anno. Sempre per solidarietà.

Sul terrazzo ho guardato prima il cielo e poi la strada. In realtà, per prima cosa ho osservato la finestra della cucina della coppia che vive di fronte al mio palazzo. Saranno già in piedi? No, ovviamente. Troppo presto. Staranno giocando con Morfeo. O staranno giocando con Eros.

Neanche questo ha importanza.

E poi ho guardato i miei piedi, nudi. Dalì, il gatto di casa, si strusciava sulle mie caviglie formando una curva con la schiena. L’ho accarezzato e mi sono messo a camminare avanti ed indietro su quelle mattonelle, respirando l’aria fresca e leggera che a quell’ora ti pizzica il naso e ti ricorda alcune scampagnate mattutine da adolescente. All’epoca non capivo ancora la forza di quel pizzichìo. Camminavo e la respiravo quell’aria, priva di quella pesantezza tipica di fine giornata quando, dopo cena, ero solito camminare su quello stesso terrazzo accerchiato dal fragore e dal fetore umano.

Prima delle prime luci del mattino - e ben prima dell’alchimia cromatica - ho chiuso il quaderno nero moleskine, ho rimesso la penna sul comò, vicino alla lampada. L’ho spenta. Nel letto mi sono girato verso la parete. Priva di finestra.

Un muro bianco...

mercoledì 1 maggio 2013

Il muro bianco




Primo Maggio

Oggi è un giorno di festa e non si lavora. Oggi è il giorno dei lavoratori. Forse farà festa anche chi non lavora. Ma solo per solidarietà. 

Alle 6 in punto un filo di luce comincia a dar forma a tutto quello che lo circonda. Intravede, a fatica, le fessure degli scuri e la luce che penetra attraverso la tenda rossa crea una strana alchimia cromatica. Chissà perché gli occhi, appena si aprono, cercano sempre come prima cosa una finestra. E’ come se si avvertisse all’improvviso il bisogno di una via d’uscita; nel letto, appena ci si sveglia. E’ come se si dovesse uscire velocemente dal luogo in cui si ri-prende coscienza del proprio io. O forse si cerca la provenienza della luce per proteggere gli occhi ancora gonfi e poco stropicciati. C’è il sole o il cielo nuvoloso? Forse porterà pioggia. Forse gli occhi cercano la finestra per il semplice bisogno di libertà. Anche e solo mentale. Tant’è che spesso, e neanche troppo paradossalmente, una volta scrutata la finestra, ci si gira verso la persona che si ha al proprio fianco, nel letto, come per abbracciare la sicurezza che spiega perché non si apre subito quella finestra, perché non si vuole rompere l’equilibrio di un momento. effimero o duraturo. Non ha importanza.

Prime luci del mattino. La memoria a breve termine ha immagazzinato le ultime fasi del sogno che sono state immediatamente trascritte sul quaderno nero moleskine, oggetto di indiscusso valore teso all’interpretazione dell’inconscio. Un dedalo come tanti altri.    

Si è girato e rigirato, ha anche provato a mettere la testa sotto il cuscino. Le prime ore del mattino sono sempre silenziose e soavi. Ma possono essere anche rumorose e caotiche. Si è alzato e ha spostato leggermente la tenda rossa, aperto la finestra che dà sul terrazzo e spalancato gli scuri. Al mattino si tende sempre ad aprire gli scuri con una certa animosità, come se si volesse uscire al più presto per trovare il giusto ossigeno. La notte, invece, si chiudono in maniera vellutata, sulla punta dei piedi e senza far rumore, per non svegliare i demoni. Loro dormono già. Non ha sentito nessun rumore di motore acceso vicino al bar; d’altronde è la festa dei lavoratori e al lavoro di solito ci si va in macchina. Ma prima si beve il caffè, al bar. Tutte le mattine dovrebbero essere così. Sì, ma la festa dei lavoratori c’è solo una volta all’anno. 

Sempre per solidarietà.

Sul terrazzo ha guardato prima il cielo e poi la strada. In realtà, per prima cosa ha osservato la finestra della cucina della coppia che vive di fronte. Saranno già in piedi? Ovviamente no. E poi ha guardato i suoi piedi, nudi. Dalì, il gatto di casa, si strusciava formando una curva con la schiena. Lo ha accarezzato e si è messo a camminare avanti e indietro respirando l’aria fresca e leggera che ti pizzica il naso e che ti ricorda alcune mattine da bambino, in campagna; all’epoca non ne capiva ancora la forza. Camminava e la respirava quell’aria, priva di inutili paturnie e frustrazioni che la rendono elettrica ed appesantita, la sera dopo cena, quando non più scalzo era solito camminare su quello stesso terrazzo accerchiato dal fragore e dal fetore umano.   

Prima delle prime luci del mattino e ben prima dell’alchimia cromatica, ha chiuso il quaderno nero moleskine, ha rimesso la penna sul comò vicino alla lampada. Ha spento. Nel letto si è girato verso la parete. Priva di finestra. 
Un muro bianco...

patosoftineto