venerdì 10 maggio 2013

Una parola al secondo



…quando si lascia un luogo ove si è costruito qualcosa, in cui si è creduto poter investire sé stessi: allora, nel lasciarlo, si muore un po’. Si ha paura di quello che accadrà, si ripensa al vissuto.

Difficilmente ci si riesce ad abbandonare alla gioia dell’inatteso: solo fuggendo da qualcosa si ha una parvenza di libertà. Lui tuttavia non era solito fuggire: si era promesso di conoscere una vastità di luoghi, di incontrare differenti personaggi, diametrali mentalità. Abbandonava un luogo e subito si investiva nel porto di approdo, conscio che anche da lì sarebbe salpato ancora una volta, sempre alla continua scoperta della sua ricerca.

Quando si abbandona un luogo non perché lo si fugge, ma perché si vuole di più, allora la responsabilità di tale scelta traina voracemente il fardello dei dubbi, lascia alternativamente sbigottiti e allegri, terrorizzati ed entusiasti, malinconici ma euforici. Si è vulnerabili, probabilmente per dare modo a ciò che sta giungendo di colpirci con tanta violenza da dimenticare ciò che fu, da metterlo per un istante da parte, nel limbo dei ricordi che presto torneranno, ma la cui temporanea assenza lascia respirare a pieni polmoni, senza crampi.

Quando decidi di lasciare qualcuno, in particolare, quel senso di incompletezza assale e divora: non lasci al tempo la possibilità di accomodare, e spesso troppo viene demandato all’attesa. Rimane forse il gusto della mortalità, del non poter avere le risposte che vorresti, del frutto proibito che si continua ad attendere.

Rimane il dubbio che affiora tra gli alberi che scorrono lungo il finestrino, nell’affettuosa ed anziana coppia che si stringe forte qualche sedile avanti al tuo… diventi d’un tratto colpevole di non aver lasciato all’amata la possibilità di renderti felice, e con tale colpa non si convive superficialmente. È una colpa totalizzante, completa, esaustiva in sé stessa: è la ragione del suo discendere e la forma che assume è il magone e lo sconforto che capricciosamente arrivano per volare via, che ti lasciano in balia di una scelta ma che ti ricordano imprevedibili quanto ancora persistano nel sogno: il prezzo non è stato ancora del tutto saldato. Lo ricordano attraverso la silenziosa pazienza dell’autista, attraverso i sedili sformati da chi prima di te ha intrapreso il cammino, per mezzo degli alberi che scorrono lungo il finestrino e dell’affettuosa ed anziana coppia che si stringe forte qualche sedile avanti al tuo.

Lui non riusciva a colmare la voragine con l’entusiasmo del nuovo, con la protettiva proiezione dell’avvenire. Marciva nel senso di colpa, nell’immagine di lei che soffre e si dispera, che singhiozza raccontando tanta crudeltà al suo Amore; i suoi occhi gonfi e persi, insanguinati e sfregati; le guance solcate da lacrime che colano e che asciugandosi lasciano la crepa propria del sale; in particolare la sua voce, quella rara melodia che recitava oggi fievole sofferenza e dolore, l’incomprensione dell’abbandono; le sue mani che vedeva tremolanti, solcate da vene furiose e di nero striate.

Lei nella sua completezza, sprofondata nel divano rosso della loro casa dicendosi che sarebbe tornato; impotente e rabbioso la vedeva contorcersi e stringersi lo stomaco, chiedendosi perché debbano scorrere così tanti alberi lungo il finestrino del cammino…


reno

Nessun commento:

Posta un commento